“Una donna su tre è vittima di una qualche forma di violenza. Parlatevi ragazze”. Queste le parole di un Ministro.
Mi hanno fatto riflettere su un episodio…
Mi chiedo: con chi parla una donna? Quando una donna viene derisa e a fronte della sua reazione infastidita assalita verbalmente, marchiata con un epiteto che graffia come il filo spinato, sorge una domanda che si annida come un cruccio nella mente: con chi parla? A chi si rivolge, quando il silenzio delle altre donne presenti diventa un muro di indifferenza? Un silenzio che non è neutro, ma pesante, pieno di significati che rimbombano più forte delle parole pronunciate.
Immaginiamola, questa donna. Sta lì, sola, con la dignità sgualcita e il dolore che pulsa sotto la pelle. Lo sguardo cerca un’alleata, qualcuno che alzi la voce o, almeno, gli occhi per dire: “Ti vedo, sono con te.” Ma non succede. Una si alza ed esce, quasi fosse stata spettatrice di uno spettacolo troppo crudo da tollerare. Un’altra abbassa la testa, il volto segnato da un imbarazzo che somiglia troppo a una fuga. Poi c’è quella che trattiene a stento un sorriso, compiaciuta.
Con chi parla, allora?
Parla con il vuoto. È al vuoto che la sua anima si rivolge, interrogando l’assenza di solidarietà. Si chiede: “Perché le donne tacciono davanti a questo scempio? Perché non riconoscono in me una parte di loro stesse?” Quel vuoto è il riflesso di una società che ha insegnato alle donne a competere tra loro invece di unirsi. È un’eredità antica, che risale a tempi in cui la sopravvivenza dipendeva dall’essere più accettabile agli occhi del potere, spesso maschile. Quel vuoto, però, diventa anche uno specchio, e la donna si ritrova a interrogarsi se stessa: “Io, al loro posto, avrei agito diversamente?”
Parla con le ferite del passato. Ogni epiteto, ogni sguardo di disprezzo, riporta alla luce altre ferite, altre umiliazioni taciute. Non è solo la ferita del momento, ma una catena di episodi simili, sedimentati nel tempo. Ogni donna porta con sé un carico di esperienze non dette, episodi sepolti sotto strati di convenzioni sociali. In quel momento, la donna parla con tutte le volte in cui ha scelto il silenzio per non essere lei, quella che alza la voce e diventa bersaglio.
Parla con una griglia interiore. Dentro di lei, si leva una voce che reclama giustizia. È una voce primordiale, istintiva, che urla: “Non è giusto! Non devo sopportarlo da sola!” Questo gridato, però, spesso resta intrappolato, soffocato dalla paura di essere ulteriormente esposta o giudicata.
E infine, parla con un “noi” che ancora non esiste. In quel silenzio assordante, la donna immagina un mondo diverso. Immagina un “noi” collettivo, una rete di donne che non si voltano dall’altra parte, che non si compiacciono del dolore altrui. È un “noi” ancora fragile, ma che inizia a formarsi nella mente e nel cuore di chi sogna un cambiamento.
Con chi parla una donna? Parla con il vuoto, con il passato, con se stessa, con il grido della sua anima, e con il futuro che spera.
Ma soprattutto, parleremo con chi sarà pronta ad ascoltare. Perché ogni domanda merita una risposta, e ogni silenzio può essere spezzato.