Ode al calcolo
Un mese e 10 giorni dopo l’intervento ancora “partorisco” pezzi di “creature aliene” senza dolore,
altri parti sono molto più dolorosi.
Lasciare andare (ode al calcolo)
Ci sono mani che stringono,
corde sottili fatte di memoria,
di abitudini che sembrano radici.
Trattengo tutto,
anche il dolore che pesa sulle spalle
come una veste di pietra.
Ogni addio è un nodo alla gola,
un vuoto che fa paura,
come se lasciando andare
perdessimo un pezzo di noi stessi.
Eppure, quanto di quel peso
è davvero nostro?
Quante catene portiamo
solo perché ci sembrano familiari?
Ci sono giorni in cui il passato
sussurra il suo richiamo,
una voce che promette certezze,
anche quando fanno male.
Ci aggrappiamo ai nomi, ai volti,
ai rimpianti come a una zattera
in un mare che chiede solo
di essere attraversato.
Ma poi, un soffio di vento
scompiglia i pensieri,
una luce morbida si insinua nelle crepe.
E capisco che il mondo
non chiede nulla da me,
se non il mio stesso respiro.
Allora apro le mani.
Lascio andare il passato
come foglie al vento,
come piume nell’aria.
E nel vuoto che resta
non c’è paura,
ma leggerezza.
Non c’è perdita,
ma spazio per qualcosa di nuovo.
La luce entra piano,
non chiede permesso,
scivola tra le ombre
e le dissolve.
E io, per la prima volta,
mi sento libera.
