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Buon Anno: sono persona, pensieri, bisogni, desideri e tutto….
Io sono una persona. Non un oggetto. Ho miei pensieri, desideri, bisogni. L’idea rivoluzionaria che questi bisogni, pensieri, desideri, siano espressi e rivendicati in una società che teme le mie rivendicazioni, la mia narrazione, la mia autorappresentazione, in qualunque forma essa si manifesti, io posso chiamarla Femminismo o posso chiamarla in mille altri modi ma quel che è certo è che in qualunque società nella quale l’assetto sia definito dalla ignoranza dei desideri, bisogni, pensieri di qualchedun@ quando essi vengono manifestati sono percepiti come una minaccia all’ordine sociale e come un modo per arrivare al caos.
La negazione di me diventa motivo di ripristino dell’ordine in una scelta perennemente repressiva che aggiusta, sposta, fagocita, attenua, mortifica, ammazza le identità altre, dissenzienti, disturbanti, in quanto che si auto rappresentano.
Avviene per qualunque categoria di persona, qualunque soggetto che tenta di stabilire una relazione con altre a partire dal proprio sè. Ed è quel “sè” che viene percepito principalmente come una minaccia giacché si dice sia solo interprete da completamento ad altr@ o comunque doverosamente da blindare, limitare, perché diversamente il mondo sarebbe costruito su individualismi senza fine.
L’emergere di un nuovo “sé” consapevole ed autodeterminato implica che altre persone devono fare spazio, come quando mi trasferisco a casa d’altri/e e quegli o quelle altre devono consegnarmi almeno un piccolo cassetto, qualche gruccia dell’armadio facendo io attenzione a non prendermi tutto perché la mia esistenza comunque non può inficiare quella altrui.
Gli sforzi di esistenza di chi non aveva voce consapevole o autodeterminata segnano fasi precise che chiamiamo rivoluzioni e che mettono in discussione tutto per riassegnare nuove verità e idee e pensieri e certe volte dogmi. Si stabilisce una morale che forma ed educa persone e le abitua a ritenere che c’è un pezzo di soggettività che bisogna proprio considerare in modo diverso.
E’ la mia voce. E’ la tua voce. E’ un coro di voci che è necessario ascoltare, tutte assieme, facendo lo sforzo di non far prevalere una sulle altre.
La comunicazione è una di quelle materie che ragiona molto sull’ascolto delle voci e su come imprimere la propria affinché abbia presa sulle coscienze altrui. Persuadere altri/e della giustezza delle proprie espressioni è un esercizio che passa spesso per più fasi. Ve ne delineo due.
1] Io sono persona. Ascoltami. Sono io e puoi e devi sentire quello che ho da dire perché in questa società così combinata deve esserci posto anche per me.
2] Io ho superato la fase di pretesa dell’ascolto e ora pretendo tu ascolti altre/i come me. E nel pretenderlo le rappresento, mi arrogo questo diritto, e certe volte invece che dare loro voce mi sostituisco alla loro narrazione che può non essere la mia. Le verità che declino in questa fase danno generalmente origine a delle ideologie perché quel che sostengo diventa integralismo. Diventa oppressione, moralismo, autoritarismo.
La rappresentanza di parte normalmente dovrebbe dare voce a tutte/i ma finisce spesso per essere strumento di diffusione dei propri pensieri, dei pensieri, cioè, di chi domina, in un senso o nell’altro, con ogni mezzo possibile, economico, mediatico, sociale, politico, culturale, di chi egemonizza cancellando tutto ciò che è in netto dissenso con l’opinione di chi dirige.
In questo senso il leaderismo è la negazione stessa di ogni possibile percorso di partecipazione dal basso, di costruzione di quel se’ collettivo che rappresenti davvero, il più possibile, il sè di chiunque. E’ il sè individuale che delega a qualcun@ di più potente e in vista un sè collettivo che spesso gli o le è perfino impedito di costruire.
La scena politica attuale è fatta di queste deleghe, questa negazione del sè, dei bisogni, desideri, pensieri, individuali, che vengono anzi percepiti in assoluto come una minaccia e che per esprimersi si servono di un capovolgimento di senso, un subvertising, laddove un nickname rappresenta tutti e tutte o una sola maschera diventa simbolo dei tanti e delle tante nessun@. Invisibili, anonimi, siamo nascosti dietro mille maschere di ogni colore, come le Pussy Riot e altri fenomeni culturali del nostro tempo, in cui tutto ci dice che le leadership hanno stancato e che bisogna essere insieme, tutti, paritariamente, a fare qualunque cosa vogliamo fare e a esprimere una opinione perché tutti/e contiamo qualcosa, tutti/e siamo importanti.
E questa cosa l’hanno capita i movimenti, anche se diventa spesso un modo per sdoganare attraverso il tutto quell’unica modalità ideologica che prevale sul qualunquismo e ancora dietro le maschere collettive finiscono per riassumersi altri soggetti che prevaricano i sè individuali.
Sono dinamiche che ho vissuto spesso attraversando collettivi e movimenti e quel che so è che anche il femminismo è diventato meta di leaderismi sconsiderati in cui è difficile che qualcuna rinunci a manifestarsi come identità individuale per fare spazio ad una identità collettiva realmente partecipata dal basso. Perché biechi protagonismi sono deleteri e perché tra protagonismo, egemonia e furto delle espressioni collettive a vantaggio di una sola e riconoscimento del lavoro di qualcun@ c’è una grandissima differenza.
Il femminismo è diventato meta di ideologismi, finanche di espressione paternalista/patriarcale, e io non ne ho avuto certezza mai come in questi ultimi anni in cui si è declinata la santificazione del corpo femminile e del suo animo per arrivare a soglie di estremismo ideologico in cui l’uomo sarebbe senza anima, una bestia, violenta e dagli istinti primordiali, senza che vi sia responsabilità alcuna in qualunque altro essere umano per la diffusione di culture pessime. E poi le donne sono diventate una specie di bene pubblico da tutelare, monumenti, statue, sante, icone moderne di rinnovata cristianità, indi per cui il mio personale desiderio, il mio pensiero, il mio bisogno di persona, donna, è piegato o addomesticato o rieducato secondo il dettato di questa nuova religione.
Io sono persona e non un oggetto. Ho miei desideri, miei bisogni, miei pensieri e non posso essere altro che me stessa. Non posso essere te e te e te e posso raccontare perché tu non puoi impormi il tuo punto di vista o perché tu non puoi determinare discriminazione ed esclusione del dissenso al fine di mantenere un ordine precostituito perché se questo è ciò che fai mentre invochi un maggiore ordine sociale tu sei l’autorità, in senso cattivo, sei il regime, sei la repressione, sei la negazione del mio sè perché ci vuoi in piazza tutte intruppate a recitare un mantra che non mi/ci appartiene.
Ci sono regimi che si costituiscono con molto meno. Eserciti violenti. Qualche testo da passare alle scuole, comandamenti spiccioli e normativi delle vite altrui. Quel che io vedo è invece che il femminismo ha assunto forme di espressa religiosità mentre stabilisce quale pensiero sia giusto e quale no e lo fa mentre brandisce vittimismo e una pregressa oppressione che sarebbe la ragione per cui oggi possiamo dettare leggi, regole, comandamenti.
Leggi, regole, comandamenti non a partire dalle singole esigenze di qualcun@ ma delle più ricche, privilegiate, potenti che stanno sempre sedute ad un tavolo di conciliazione con un patriarcato istituzionalmente riconosciuto che ci rende funzionali ad una più grande forma di oppressione: quella dei ricchi sui più poveri, quella delle classi più abbienti su quelle totalmente precarie o indigenti.
Donne che trovano temi unificanti di sorellanza recitata solo a parole e non nei fatti per tenere in piedi quella baracca di sistema economico che se ne frega dei sessi, di chi lavora, chi fa cosa e che ci destina a ruoli precisi sulla base di quello che più conviene.
Al mercato economico conviene che noi, le donne, restiamo a casa perché lavorare gratis nei ruoli riproduttivi e di cura è meglio. Conviene che nei lavori produttivi restino gli uomini perché non hanno mestruazioni, non fanno figli, e anche se volessero fare i padri e avessero più capacità di cura di una donna a loro non deve essere data quella scelta perché fanno più comodo a sfacchinare per le imprese e per l’economia che a fare i babbi.
Insomma, per concludere, quello che volevo dire è che vi auguro un buon anno, un grande 2013, ma all’insegna della ripresa di parola di ciascun@, che piaccia o meno, perché la dialettica sia reale e non condizionata da oppressioni culturali, economiche e politiche e di genere, includendo tra i generi che mi opprimono il mio stesso genere per conto di alcune che producono rivendicazioni o scelte che non mi riguardano.
Che sia un anno di ripresa di parola per chiunque e che le parole non spaventino, che per riprendercele si impari a indossare maschere tutte uguali affinché nessun@ prevalga su nessun altr@ e che nessun@ osi reprimere chi dissente o mortificare le singole individualità perché di pezzi di noi è fatto il mondo e non c’è nessun noi se non c’è prima un se’ consapevole, pienamente espresso, pienamente raccontato e presente e vivo e disturbante e incazzato e vaffanculo.
Continuate a mandarmi frasi che vi hanno fatto male e che volete buttare giù, abbattere, palesare come vanno palesati tutti gli stereotipi etero-normativi del mondo.
E ricominciamo a scrivere frasi che ci facciano bene.
Io sono una persona. Non sono un oggetto. Ho pensieri, desideri, bisogni e se questa roba che mi riguarda non riguarda te io non te la impongo e tu, però, smetti di impormi la tua ché non mi appartiene e non mi apparterrà mai.
Per le rivoluzioni fatte di autonomia e autodeterminazione: Buon Anno!